Sin dai primi del Trecento, appariva evidente che questa città nuova, sorta intorno alla metà del secolo precedente, avrebbe costituito un importante polo politico ed economico del Mezzogiorno e anche del centro Italia. Collocata ai confini settentrionali del Regno e sulla «via degli Abruzzi», che collegava Firenze e Napoli, era presto diventata un centro commerciale di rilievo. Artefici di questo successo furono i mercanti-imprenditori locali, capaci di sfruttare le enormi disponibilità di pascoli per le greggi ovine per produrre e smerciare panni di lana di media qualità, accumulando patrimoni che reinvestivano poi in varie attività, non ultima quella bancaria. Il loro raggio di azione fu via via più ampio: già nella prima metà del Trecento, alcuni si legarono alle compagnie toscane che operavano nel Regno, principalmente quelle fiorentine. Ma lo sviluppo commerciale fu sostenuto anche dalla monarchia angioina, in particolare da re Roberto, attraverso una serie di privilegi che agevolavano l’attività, specialmente sul piano fiscale.
Emblematico di questa “triangolazione” fra L’Aquila, Angiò e Firenze è un episodio che riguarda uno dei maggiori mercanti del primo Trecento, Giacomo di Tommaso detto Gaglioffo. Nel 1327 Carlo duca di Calabria, erede al trono e allora signore di Firenze, chiese a Gaglioffo di acquistare in Abruzzo 6.000 montoni, 3.000 suini e 2.000 vacche per la sua corte nella città toscana, con buona pace dei macellai fiorentini. Gaglioffo doveva anticipare un’ingente somma per quel numero straordinario di capi di bestiame, operazione che poteva permettersi solo un grande mercante dotato di capitali consistenti.
A questo spiccato dinamismo economico non corrispondeva ancora un protagonismo politico dei mercanti. Fino a metà Trecento, altri erano i soggetti che si contendevano la guida della città, membri di un’aristocrazia cittadina con legami ancora forti con il territorio, da cui erano provenuti anche i primi abitatori dell’Aquila.
Le famiglie Pretatti e Camponeschi si resero protagoniste di una sanguinosa lotta per il controllo della città negli anni Trenta del XIV secolo. Nulla poterono i capitani, gli ufficiali posti dalla monarchia a capo dell’amministrazione cittadina, contro la loro forza militare e il loro radicamento sociale. Fu anche per questa ragione che la corte, dopo aver tentato più volte di pacificare le parti, si schierò con i Camponeschi quando i Pretatti si dimostrarono meno inclini a rispettarne le direttive. Espulsi per l’ennesima volta i rivali, Lalle Camponeschi ottenne il titolo di conte di Montorio e la legittimazione di fatto della propria preminenza politica. Ma la corte non abbandonò il proposito di pacificare la città e a questo scopo inviò in missione Filippo di Taranto: di fronte al fermo rifiuto di Lalle di riammettere gli esuli, il principe perpetrò l’atroce assassinio del 1354.
Lo sgomento che colse gli aquilani, vividamente descritto dal cronista Buccio di Ranallo, non impedì loro di elaborare un progetto politico straordinario per il regno di Napoli: affidare alle corporazioni il governo della città. Con l’avallo della monarchia, nacque il cosiddetto Reggimento ad Arti, guidato da un collegio di governo e da un consiglio in cui sedevano gli immatricolati a cinque gruppi di associazioni di mestieri: dottori di leggi e notai; mercanti; artigiani dei metalli; artigiani delle pelli; mercanti di bestiame. Il secondo gruppo, i mercatores, costituì il nucleo di una nuova élite politica, frutto del dinamismo economico e sociale dei decenni precedenti che si concretizzò in una forma istituzionale ispirata ad alcune città dell’Italia comunale, ma allo stesso tempo aderente alla realtà locale.
L’affermazione del mondo corporativo non provocò la marginalizzazione di quello aristocratico, che anzi si rese protagonista ancora per decenni delle lotte di fazione. Qualcosa era cambiato, però: il gruppo dirigente istituzionale diventò un nuovo attore in questo campo, talora promuovendo la pace a tutti i costi – anche escludendo tutte le parti dalla città – talaltra fornendo un sostegno più o meno velato alla fazione dominante, quasi sempre i Camponeschi.
La seconda metà del Trecento fu marcata dal rinnovato antagonismo con i Pretatti, che ebbe una battuta d’arresto nel 1381, quando il leader di questa fazione, Ceccantonio, fu catturato e condannato a morte. L’obiettivo fu colto anche grazie agli sforzi della regina Giovanna I, che osteggiava i Pretatti perché restii ad accettare la pace voluta dalla corte. Ma c’erano anche altre ragioni che rinverdivano i contrasti: il Grande Scisma della Chiesa e la contesa dinastica angioina condussero le parti a schierarsi su fronti contrapposti. Dopo la morte di Ceccantonio, i Camponeschi oscillarono fra l’una e l’altra fedeltà, subendo un breve esilio imposto dal vittorioso Ladislao.
La fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento scorsero sotto il segno dell’incertezza, per la mutevolezza delle posizioni dell’Aquila e dei gruppi politici al suo interno. Ma sotto il regno di Giovanna II il corpo politico cittadino si ricompattò. Guidata da Antonuccio Camponeschi, nel 1423-1424 L’Aquila resistette eroicamente all’assedio di Braccio da Montone, che morì senza poterla espugnare. Il progetto braccesco naufragò. E il nord del Regno fu salvo anche grazie agli aquilani.
Pierluigi Terenzi