Il paesaggio che caratterizza il territorio aquilano è da sempre condizionato da forme insediative tipicamente medievali, basate sul sistema dei villaggi di alta collina, qui maggiormente funzionali rispetto agli insediamenti di pianura di epoca classica.
Già dall’VIII-IX secolo, le prime fonti documentarie testimoniano lo svilupparsi di quel sistema organizzativo delle proprietà fondiarie basato su particolari tipologie di aziende agricole, dette curtes, attorno alle quali sorsero numerosi insediamenti sparsi di piccolissime dimensioni.
Sono note, infatti, numerose attività produttive votate per lo più allo sfruttamento dei pascoli e dei boschi. Probabilmente gravitanti su centri abitati più consistenti, queste attività erano associate a piccole casae disposte su modesti rilievi a mezza costa lungo i versanti interni delle montagne, nei pressi dei rarefatti terreni coltivabili che ancora oggi caratterizzano il territorio.
Nell’area soggetta alle antiche diocesi di Amiternum e Furconia, rispettivamente alle estremità Ovest ed Est dell’attuale città dell’Aquila, il paesaggio fu caratterizzato da rari appezzamenti di terra coltivata e vaste estensioni di bosco e terreno destinato al pascolo. Un mondo di agricoltura povera, integrata dalla pastorizia, e di bassa densità demografica, con nuclei abitati estremamente ridotti. È in questo quadro, caratterizzato da insediamenti sparsi e aziende agricole, che inizia a delinearsi quel fenomeno che oggi conosciamo come incastellamento e che finirà con il condizionare il paesaggio aquilano fino ai nostri giorni.
Al contrario di aree limitrofe come quella teramana o sabina, questo territorio non presenta un numero cospicuo di castelli prima dell’avanzata dei Normanni. Si ha notizia di poche fortificazioni sorte tra X e XI secolo, tra le quali spicca la precoce presenza del castello di Sassa, citato come castellum già nella metà del IX secolo.
Attualmente non si conservano resti della fortificazione, probabilmente localizzata a monte dell’abitato di Genzano di Sassa, dove era ubicato anche il precedente insediamento curtense, in relazione diretta con gli insediamenti rurali legati allo sfruttamento e alla gestione del territorio. Lo stesso fenomeno si manifesta per gli altri castelli citati dalle fonti in questo particolarissimo frangente storico, come i castelli di Sinizzo, di Preturo, di Camarda, di Roio e di Marana.
Queste fortificazioni, dunque, con ogni probabilità non sono altro che una naturale evoluzione di quegli insediamenti legati allo sfruttamento del suolo; non a caso nessuna di queste costruzioni risulta realizzata a fini prettamente difensivi. Le strutture, ubicate in aree precedentemente menzionate come curtes, villae o casali, risultano spesso accompagnate dalla presenza di un edificio di culto più antico, ulteriore prova dell’esistenza di un precedente insediamento sparso.
La nascita di queste poche fortificazioni, però, non incise in maniera determinante sull’organizzazione territoriale, che sembra rimanere ancorata alle precedenti strutture di tipo curtense, caratterizzate da abitati aperti e, probabilmente, legate a iniziative delle signorie fondiarie che iniziano a fare la loro comparsa nel territorio proprio a partire dal X secolo. È solo con la nascita di queste figure di signori locali che si pongono le basi per un accorpamento di quei piccoli insediamenti che costellano il paesaggio e che detteranno la nascita dell’incastellamento nell’area.
Questo processo è legato infatti ai tentativi sempre più insistenti di accrescimento dei propri possedimenti, spesso tramite delle usurpazioni, di cui le fonti documentarie riportano numerosi esempi nel territorio abruzzese, citando gli attori di queste dinamiche come raptores e invasores. Si tratta di piccoli proprietari terrieri che ampliarono il proprio dominio con la forza, sia sottraendo beni di proprietà dei grandi monasteri abruzzesi e laziali indeboliti anche dagli incombenti raids saraceni, sia consentendo la nascita di nuovi centri rurali fortificati.
Le prime usurpazioni relative al territorio in analisi compaiono nella documentazione a nostra disposizione in seguito all’elezione di Campone ad abate del monastero imperiale di Farfa nella prima metà del X secolo. Si trattava di un laico appartenente all’aristocrazia reatina, introdotta nel territorio da Ugo di Provenza, che riuscì a imporre in queste diocesi aristocratici in cerca di fortuna provenienti dalla Borgogna e permise a numerosi esponenti di questa nobiltà di espandere i propri possessi su vaste porzioni di territorio controllato dalla sua abbazia. In seguito questi personaggi, non accontentandosi più di usurpare terre ai monasteri, procedettero alla loro fortificazione e, dunque all’incastellamento, per un migliore controllo sul territorio, approfittando anche della debolezza degli enti ecclesiastici in seguito alle invasioni saracene.
Nonostante questi primi esempi di fortificazioni avviatisi con la fine del X secolo, fu solo a partire dal periodo normanno che avvenne la decisiva modifica dell’habitat dell’odierna area aquilana. Infatti, tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo questa zona assunse un ruolo strategico nella vita del Regno, in qualità di spazio di frontiera con i possedimenti della Chiesa e di giunzione con le nuove vie dei flussi commerciali centro-settentrionali. Ciò è confermato da diversi fattori, come la posizione dei castelli o le quote di edificazione.
I primi insediamenti risultano sempre ubicati a quote relativamente basse – considerando la particolare orografia del territorio – comprese tra i 780 metri sul livello del mare di Sassa e gli 850 metri di Roio, con un differenziale di quota rispetto alla piana coltivabile circostante inferiore ai 150 metri. Discorso diverso, invece, per i successivi castelli normanni che raggiungono spesso quote elevate, fino ai 998 metri sul livello del mare di Ocre, ai 1105 metri di Pizzoli, ai 1208 metri di Tornimparte o i 1220 metri della rocca di Barete, con un differenziale spesso notevole, che si aggira sui 400 metri.
È chiara, dunque, la valenza militare di queste nuove fortificazioni, costruite in punti strategici a controllo delle vallate e della viabilità sottostante, con minore attenzione verso una ottimale gestione economica delle risorse.
In seguito all’interesse suscitato dal particolare ruolo strategico dell’Abruzzo settentrionale, cerniera di confine con lo Stato della Chiesa, il paesaggio subì una profonda e radicale trasformazione proprio durante i secoli interessati dalle conquiste normanne, con un embrionale incastellamento antinormanno, stravolto e successivamente riutilizzato dai nuovi conquistatori.
Questa nuova ondata di incastellamento previde la concentrazione della popolazione in insediamenti accentrati e appositamente difesi e la successiva costituzione di un territorio compatto a loro politicamente ascrivibile, con una massiccia e diffusa riorganizzazione delle colture e dell’allevamento transumante.
Come si può facilmente intuire, dunque, tra la fine dell’XI secolo e la metà di quello successivo, l’Abruzzo assistette a un proliferare di castelli con funzione sia difensiva che offensiva. Mentre alcuni castelli si devono ai signori locali per timore dell’arrivo dei Normanni, altre costruzioni furono opera proprio dei conquistatori che li realizzarono, spesso seguendo i caratteri tipici dei fortilizi d’Oltralpe, prima come vere e proprie teste di ponte per la conquista del territorio amiternino-forconese, area nevralgica dello scacchiere normanno, poi per una più ottimale difesa della frontiera settentrionale del Regno.
I castelli presenti nel territorio rispondevano a esigenze squisitamente militari, ben diversi da quelli che nel corso del X-XI secolo erano sorti per ragioni di natura economica e demografica, connessi con la rinascita agraria e dunque più finalizzati alla riorganizzazione dei territori che a scopi difensivi. I nuovi fortilizi rappresentano invece la radicale trasformazione delle strategie di insediamento di XI-XII secolo, sia per la loro particolare ubicazione a diretto controllo del territorio, sia per le loro caratteristiche morfologiche, topografiche e architettoniche.
Grazie alle indagini archeologiche in atto nel territorio aquilano, è possibile stabilire con un certo grado di sicurezza che durante la nascita della frontiera normanna solo alcuni di questi castelli furono fondati ex novo con una forte connotazione militare, mentre in altri siti fu messa in atto una ingente ristrutturazione dei preesistenti insediamenti, per meglio adattarli alle nuove esigenze di difesa che stavano emergendo.
Ruggero II lasciò il governo di queste terre ai signori locali che in precedenza li avevano controllati, senza imporre feudatari di stirpe normanna, con una originale condizione di strutture difensive ascrivibili all’ambito culturale normanno (legate alla tipologia della motte and bailey, insediamento fortificato tipico della regione della Normandia e dell’Inghilterra meridionale) ma gestiti da personale locale, appartenente ai lignaggi tradizionalmente presenti nella zona.
Una gestione diversa, invece, si verificò in alcune aree più esterne ubicate lungo la linea di confine del Regno, come le Terre Sommatine (il territorio gravitante attorno ad Amatrice, l’estrema frontiera settentrionale), annesse solo nel 1149 a seguito della conquista di Rieti e concesse a suffeudatari minori dei signori amiternini.
La strategia di difesa del Regno messa in atto da Ruggero II potrebbe aver previsto una sorta di “cuscinetto” costituito da questa prima linea difensiva, destinata semplicemente a vigilare e dare l’allarme in caso di pericolo, dando il tempo ai grandi feudatari dell’entroterra di organizzare le difese. Si tratta di un sistema di controllo del tutto nuovo rispetto a quelli precedenti, nel quale le fortificazioni non avevano più una funzione di barriera attiva o di presidio armato, ma solo quella di sentinelle costantemente vigili per avvisare tempestivamente in caso di attacchi esterni.
Nei territori di confine, dunque, venivano lasciate fortificazioni minori, concesse in suffeudo, eventualmente “sacrificabili” a vantaggio dell’entroterra, dove la strategia del Regno prevedeva di affiancare ai castella già esistenti nuovi insediamenti basati sul modello normanno della “motta”, come chiaramente emerso dalle indagini archeologiche del castello di Ocre e dalle ricognizioni su quelli di Cesura, Leporanica e Cascina, di chiara influenza normanna.
Queste fortificazioni, appartenenti alla tipologia della motte and bailey, costituite inizialmente da strutture in legno e successivamente trasformate in pietra, presentano puntuali confronti con “castelli-matrice” ubicati nel Nord della Francia e nell’Inghilterra meridionale. Ne sono esempi la motte and bailey d’Olivet nella foresta di Grimbosq e lo Château Ganne à La Pommeraye, entrambi nella regione di Calvados in Normandia, alle porte di Caen, o la shell keep di Restormel Castle ubicata nella cittadina di Lostwithiel, nel Sud/Est della Cornovaglia (Inghilterra sudoccidentale).
Le nuove opere che si affiancarono e sovrapposero a quelle esistenti furono inizialmente costituite nella maggior parte dei casi da torri di avvistamento poco complesse distanti dai siti abitati, indispensabili in un territorio accidentato come quello in oggetto. Solo dopo la definitiva conquista del Regno si passò alla realizzazione sistematica di veri e propri castelli di residenza feudale.
Le soluzioni adottate nell’Aquilano, dall’epoca normanna in poi, rappresentano, dunque, una sintesi tra il bagaglio di esperienze culturali e tecniche dei nuovi conquistatori e i saperi locali, proficuamente integrati nella gestione di un territorio impervio e in gran parte ancora indomito, ma estremamente importante per i Normanni da un punto di vista strategico e militare.
Alfonso Forgione