da Amedeo Feniello | Città
«L’urbs (la città fisica) sono le mura, ma la civitas (la città intesa come cittadinanza) non sono le pietre ma la gente che la abita». Rileggere queste parole delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (560 ca-636) dà le vertigini. Proprio per la sovrapposizione tra questi due mondi distintivi della città medievale: composta da un lato da mura, torri e porte, che compongono l’elemento spaziale di separazione tra ciò che è concepito come urbano e ciò che non lo è. Mentre, dall’altro, emerge, in tutta la sua potenzialità, la città degli uomini, con i loro stili di vita, le loro sensibilità, il loro sentirsi diversi in quanto cittadini. Perché in città si respira, specialmente nel Medioevo della rinascita, dopo il Mille, un’aria nuova e diversa. Di raccordi. Di solidarietà. Di possibilità che altrove è impossibile ritrovare.
Un clima che Dante Alighieri, nel Convivio, definisce di «vicinanza», perché, sottolinea, «come dice lo Filosofo (Aristotele) l’uomo naturalmente è compagnevole animale». E la vicinanza dove si può esprimere meglio se non in città?
Di questa città medievale occorre sempre riparlare. Soprattutto per l’Italia. Per un motivo ovvio che spesso si dimentica. Lo metteva in luce Carlo Cattaneo già nell’800. La città, sosteneva, è «l’unico principio per cui possano i secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua. Senza questo filo ideale, la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell’assidua composizione e scomposizione degli stati».
La città medievale, insomma, come paradigma della storia italiana, come fil rouge da cui mai discostarsi. Perché senza di essa, senza il ricorso al suo ricordo, alla sua storia, lo spirito civile non può che «ricadere, contristato e oppresso dal sentimento di una tetra fatalità».
Su questa base, proviamo per un attimo ad immaginarlo un Medioevo italiano senza le città. Senza i suoi comuni. Senza le grandi innovazioni di Genova, Venezia, Firenze. Senza le grandi capitali di respiro europeo, come Napoli, Roma, Milano. Senza L’Aquila, nata proprio nel XIII secolo. Esercizio impossibile…
Ma non pensiamo solo ai fulcri dello sviluppo medievale. Cosa sarebbe il nostro territorio senza la miriade di mille campanili che ancora contraddistinguono la nostra identità e la nostra specificità nazionale, tanto a Nord quanto a Sud della Penisola?
Luoghi dove in passato, come scriveva Sabatino Lopez, si viveva dello stimolo «che proviene dalla convivenza di persone di diversa origine, dalla coesistenza di professioni, di classi sociali, di produzioni economiche». Un miscuglio, proseguiva, «infinitamente variabile nella sua composizione», che rendeva ogni città un ente unico e inconfondibile, «un fattore di accelerazione e di progresso in ogni campo».
Ripensare a questo modello medievale, seguire questo filo, riconsiderare questo «organismo pluricellulare vivente» nel quale avevano la chance di convivere, spalla a spalla, l’umile carpentiere con Boccaccio o Giotto – gente di città per eccellenza! -, è dunque tutt’altro che una fatica inutile. Anzi, aiuta a ribadire tanti aspetti della nostra modernità, di quello che siamo oggi.
Riprendere quello stato d’animo, rielaborarlo con i nostri occhi contemporanei, diventa allora uno sforzo di arricchimento generale. Con una riflessione sulla città che va rafforzata, con iniziative che si aprano ad un pubblico quanto più ampio possibile.
Per evitare il pericolo dell’oblio. Della perdita di identità. Dell’abbandono dei monumenti e della bellezza del decoro urbano all’incuria dell’assenza di memoria. Perché, come diceva mago Merlino nel film Excalibur, la grande maledizione degli uomini resta sempre la stessa, fatale: dimenticare.
Amedeo Feniello
da Amedeo Feniello | Città
In un privilegio datato 1254 Corrado IV di Svevia stabilisce che nasca una nuova città, con uno scopo preciso, filoimperiale e antifeudale. I tanti castelli, i piccoli villaggi e gli insediamenti sparsi si aggregarono in un unico e rilevante nucleo urbano che nell’arco di pochi decenni diventò lo snodo cruciale dei grandi percorsi della transumanza e il crocevia degli scambi commerciali tra il Nord e il Sud della Penisola.
Edificare una città non è un fatto semplice. Un assunto perfetto per una città come L’Aquila. La sua origine non appartiene a quella storia caotica e tumultuosa, dell’esplosione di tante costellazioni di città omogenee ma diverse, simili ma differenti cui diamo il nome di rivoluzione urbana medievale, cominciata nel corso del fatidico XI secolo. L’Aquila vive un’altra storia, un po’ più recente ma non per questo meno avvincente, che merita di essere raccontata.
La genesi della città non è rapida. Non si immagini, quindi, una fondazione avvenuta da un giorno all’altro. Anzi, prima che raggiunga una fisionomia stabile, ci vuole del tempo, diversi decenni per la precisione.
Prima della creazione dell’Aquila, nella prima metà del Duecento, esiste un mondo frammentato. Due diocesi antiche e separate: da una parte Amiterno, dall’altra Forcona. Intorno, borghi e castelli; e tante terre, possesso dei Cistercensi di Santa Maria di Casanova. Un universo fluido, incoerente e poco organico, inserito in un contesto feudale instabile e violento, ostile alla casa di Svevia, tanto da spingere l’imperatore Federico II a costruire, in questo tratto strategico per il regno di Sicilia, una serie di fortezze per contenerne il ribellismo.
Un coacervo difficile da frenare e da riportare a ordine. Un primo tentativo di fondare proprio lì, tra Amiterno e Forcona, una città, non è però attribuibile a Federico II. Ci pensa invece papa Gregorio IX, acerrimo nemico dell’imperatore, nel 1229, in modo da creare un aculeo antimperiale ai confini del Regno. Ma la proposta non regge, le basi non sono solide. E poi l’imperatore è più forte e blocca qualunque tipo di progetto che non collima con la sua politica. La città, dunque, non nasce. Ma nasce un’idea: trasformare i tanti castelli, i piccoli villaggi, gli insediamenti sparsi in un unico e rilevante nucleo urbano.
L’epoca di Federico II sembra trascorrere così senza un nulla di fatto. Ma qualcosa cova sotto la cenere, perché prima della città si forma già una coscienza cittadina. È il rifiuto della pressione feudale, d’una serie immaginabile di angherie e di soprusi che spinge i gruppi più attivi di questa congerie insediativa a creare una nuova città in contrapposizione ai caotici poteri locali. Un obiettivo chiaro, che traspare in tutta la sua evidenza nelle parole del cronista Buccio da Ranallo, morto nel 1363:
«lo cunto serrà d’Aquila, magnifica citade / et di quilli che la ficiro con grande sagacitade / per non esser vassalli cercaro la libertade / et non volere signore se non la magestade».
L’Aquila nasce dunque da una violenta spinta dal basso, da una spinta rivoluzionaria. Con la coerente persuasione che uniti si vince contro l’oppressione dei signori feudali. Attraverso un processo di crescita che si dipana, tra alterne vicende, nel periodo di interregno tra la morte di Federico II e la nascita del nuovo regno angioino.
Sedici anni circa in cui questa gestazione produce i suoi effetti, scaturiti da una volontà non solo di natura politica – con una consapevolezza del ruolo cruciale della città in questo settore del Regno – ma anche economica, in cui L’Aquila si propone come snodo dei grandi percorsi della transumanza e di crocevia dello scambio tra Nord e Sud Italia.
Il primo segno dell’esistenza della città arriva da Corrado IV, il figlio di Federico. Tra 1253 e 1254 egli stabilisce che nasca la città dell’Aquila, con uno scopo preciso, filoimperiale e antifeudale. Non a caso, vengono liberati da ogni obbligo coloro i quali si fossero trovati a vivere entro i suoi confini. E, specialmente, si ordinava l’abbattimento delle rocche feudali. Sembra dunque che un primo centro urbano già ci sia. Che attenda solo l’imprimatur istituzionale. È un momento chiave della storia della formazione dell’Aquila, cui ne segue un secondo, drammatico e violento, quando la nuova città è coinvolta nello scontro tra Manfredi e il Papato.
È il 1257. Papa Alessandro IV decide di trasferire la sede episcopale da Forcona nella nuova città: un atto fondamentale, che sancisce ruolo, pretese e legittimità del centro urbano. Un atto, però, che è anche una presa di posizione filopapale. Per Manfredi è un affronto. Nel 1259 ordina di assalire la città, che viene letteralmente spazzata via. «Né casa vi rimase, né pesele, né ticto», scrive Buccio da Ranallo. La storia dell’Aquila, appena cominciata, sembra chiudersi qui. In un destino di morte e distruzione, definitivo.
Le cose invece vanno diversamente. Certo, come scrive ancora Buccio, la ripartenza è difficilissima, al punto che la città «se’ anni stette sconcia», per sei anni fu semiabbandonata, coi suoi cittadini scampati nei paraggi. Tuttavia la discesa di Carlo I d’Angiò offre nuovi spiragli. Dopo la battaglia di Benevento (1266), L’Aquila viene praticamente rifondata. A quest’opera di ripartenza contribuiscono tanti fattori, a partire, è evidente, dall’interesse di Carlo I di avere ai confini del Regno una città fedele. Un altro elemento decisivo è rappresentato dalla componente locale che aveva vissuto in maniera esaltante la prima esperienza urbana, quando la città si era dimostrata protagonista nelle vicende del territorio, tanto dal punto di vista politico quanto economico e sociale.
Ancora una volta, però, le cose furono tutt’altro che pacifiche. Si riapre lo scontro con la componente feudale, che si rivolge direttamente al re per avere ragione contro la «rea villanaglia» aquilana, pregandolo di “non refare la città». La risposta di Carlo è perentoria, contro i signori e a favore della ricostruzione: segno di quanto al sovrano angioino stesse a cuore la città, per il ruolo crescente assunto nella regione.
In effetti, L’Aquila viene ricostruita in breve tempo, con un vero e proprio piano urbanistico, come evidente nei patti stipulati dal re con la cittadinanza. che prevede anche un ampliamento del tessuto urbano, includendo nella cinta l’altura di Collemaggio. Nasce così una nuova città, con uno schema ippodameo, pronta a ospitare ben quindicimila fuochi, all’incirca tra i trentamila e i quarantamila abitanti: ci sono voluti quasi quarant’anni dall’idea di papa Gregorio, ma ora L’Aquila esiste, davvero.
Amedeo Feniello
da Arnaldo Casali | Città
Castel, Poggio, Pieve, San, Rocca.
Molti nomi di città in Italia e in Europa iniziano così. E non è un caso: perché se nell’alto Medioevo, caduto l’Impero di Occidente, le antiche città romane vanno scomparendo, dopo il mille nascono le nuove città: quelle destinate ad arrivare fino ai giorni nostri.
La città – “questa meravigliosa scoperta della rinascita medievale” – scrive Arsenio Frugoni. Nei cosiddetti “anni oscuri”, quelli della calata dei barbari, del saccheggio, delle distruzioni, della fuga delle istituzioni, le piccole città erano completamente scomparse, mentre la stessa Roma entrava nella sua fase più buia, con il vescovo rimasto unica autorità dilaniata delle lotte tra famiglie patrizie.
“Quante città erano prima scomparse, nell’orrendo abbandono che con la consunzione dell’impero romano, le epidemie, le invasioni, le scorrerie, la fame avevano causato!” scrive Frugoni in Storia di un giorno in una città medievale. “Più che al dramma violento dell’incendio e della distruzione nemica, raggela il pensare a quel lento morire delle case sole, dove il tempo non ha più misura umana, ma solo quella della vegetazione che si impadronisce d’ogni cosa, e si insinua e sgretola inesorabilmente”.
Nell’epoca feudale le popolazioni si erano raccolte – in piccoli gruppi – al riparo di un castello o di un’abbazia, le due grandi istituzioni che si erano spartite il potere in quel periodo.
Oriolo, in provincia di Cosenza. Nacque come fortezza a difesa dei cittadini scappati dalle coste per rifugiarsi dalle continue incursioni dei saraceni. È arroccato su uno sperone a 500 metri d’altezza e conserva uno splendido borgo medievale intatto
Dentro c’era la corte – religiosa o laica che fosse – fuori la servitù: contadini e operai che, legandosi a un padrone, speravano di poter sopravvivere alle carestie e ai saccheggi.
“Poi, in quell’Europa tormentata, si era venuto determinando come un assestamento: le raffiche guerresche si erano diradate. Nuove scoperte tecniche, nel campo agricolo e dei trasporti avevano garantito le generazioni, liberandole dal tragico appuntamento troppo frequente con le carestie”.
Di fatto dopo l’anno Mille è tutto un fermento di forze nuove, rinasce l’artigianato e il commercio, nascono i borghi abitati dai “borghesi” che stimolano la produzione per i loro commerci. Le città riprendono vita e allargano la loro cinta muraria inglobando anche i borghi, mentre intorno ai castelli e alle abbazie la vita si va organizzando in modo sempre più autonomo, fino a formare delle vere e proprie città che finiranno per emanciparsi sempre di più dal “padrone” per arrivare alla nascita dei Comuni, che nel XII secolo segna di fatto la fine del feudalesimo.
Ma nel corso del Medioevo nasceranno anche città totalmente nuove, intorno ai nodi stradali di importanti comunicazioni. Ogni borgo e ogni castello costruisce le sue mura, che rappresentano una difesa militare ma sono anche il segno di un sentimento collettivo di appartenenza.
Quando al tramonto le porte della città vengono chiuse, si resta completamente isolati dal mondo esterno. “Come sopra un bastimento, le mura contribuivano a creare un sentimento di unità tra gli abitanti: in un assedio o in una carestia, la morale del naufragio si sviluppava facilmente. Ma dietro quelle mura i “privilegiati” cittadini non erano sempre in pace. Le case dei nobili, o dei ricchi, ostentavano le loro torri svettanti sui tetti. Frequenti erano le lotte per il trionfo di una fazione sull’altra, che veniva, se vinta, cacciata di nido, bandita dalla città”.
L’immagine tipica di una città medievale è quella di una cinta di mura che contiene case piccole e addossate l’una all’altra, dominate da torri di pietra scura, disposte con disordine estroso lungo vie tortuose e strette.
Ma l’affollamento, spiega Frugoni, non è originario: è il frutto spesso del tardo Medioevo, quando per evitare un ulteriore ampliamento della cerchia delle mura, si preferisce sfruttare il terreno adibito a orti e cortili per costruire altre case. “L’irregolarità delle vie, talora, è accettazione dei livelli del terreno, ma è anche accorgimento per spezzare la forza del vento invernale e difendersi contro il sole estivo”.
D’altra parte le baracche degli artigiani non avranno vetri fino al Seicento e la maggior parte della vita attiva dei cittadini trascorre all’aperto. Non vanno poi dimenticati – a giustificare l’irregolarità delle strade – i fiumiciattoli – o “forme” ricoperti o andati distrutti.
Quel che è certo è che l’architettura della città medievale è completamente diversa da quella romana: se l’antica città ha una forma a scacchiera ed è costruita intorno al cardo e al decumano (cioè i principali assi stradali), quella medievale ha una forma a raggiera, che parte dal cuore della città – e cioè l’abbazia o i castello – e va verso la campagna.
Lo schema radiocentrico è proprio dello sviluppo a partire da un nucleo centrale, in una subordinazione “che certo lo schema geometrico a scacchiera, a lotti tutti uguali e intercambiabili non poteva soddisfare”.
“Il Medioevo non è egualitario, ma fondamentalmente gerarchico” ricorda Frugoni. “Gerarchia è individuazione di dignità, di compiti. Questa individuazione è fortemente espressa dalla città”. A determinare la fisionomia è dunque la specializzazione dei quartieri: il ghetto, ad esempio, nasce per il desiderio degli ebrei di mantenere le proprie forme caratteristiche di vita e per quello da parte dei cittadini di evitare una promiscuità religiosa, ma non c’è alcun obbligo di dimorare in un quartiere chiuso, cosa che avverrà infatti per la prima volta solo nel Quattrocento a Torino.
San Gimignano. Per la caratteristica architettura medievale del suo centro storico è Patrimonio UNESCO dell’umanità. La città è per lo più intatta nell’aspetto due-trecentesco ed è uno dei migliori esempi in Europa di organizzazione urbana dell’età comunale
C’è poi la specializzazione professionale: ogni via è abitata da artigiani dediti a un mestiere particolare, che rimane nel toponimo di tante città italiane (via degli orefici, vico della birra, via dei tintori).
Anche la piazza, nel Medioevo, si specializza. La città medievale di solito ne ha tre principali: la piazza politica, la piazza religiosa e la pizza economica. La piazza religiosa è quella della Cattedrale: di solito ha una grandezza modesta, e non ci sboccano mai trionfalmente strade di grande traffico: le vie, infatti, le scorrono intorno o vi si innestano.
Solo in epoca moderna alcuni architetti hanno deciso di distruggere quell’ambiente creando piazze immense, basti pensare a Milano o a Piazza San Pietro in Roma, con la realizzazione di via della Conciliazione che ha comportato – negli anni ’30 – la distruzione di un intero quartiere che copriva alla vista la basilica.
Nella piazza del Duomo si danno le sacre rappresentazioni, si svolgono le processioni. La piazza politica ha invece misure più vaste, destinata com’è alle adunanze di tutti i cittadini, ed è il cuore della città. Dominata dal Palazzo Pubblico è spesso adorna di una grande fontana o del pulpito per le concioni (si pensi, ad esempio a Narni).
La piazza economica è quella del mercato, e sorge acanto alla piazza politica. Nelle antiche città romane rappresenta spesso la saldatura tra la città antica e quella medievale. Se la città si è sviluppata intorno all’abbazia o al castello si trova di fronte al suo centro generatore. Qualche volta è specializzata (pescheria, piazza delle erbe, mercato del bestiame) e presenta fontane per la lavare gli erbaggi e bacili di pietra per le carni e per il pesce.
Le strade non sono sempre lastricate e il marciapiede viene introdotto solo tardivamente – a Firenze nel 1235. Le strade sono strette e accidentate, non sono pensate per i carri ma per i pedoni, d’altra parte è a piedi che si muovono le persone. Per la pioggia si provvede con una fila di portici e con la sporgenza dei tetti, dato che gli ombrelli in Italia appariranno solo alla fine Cinquecento. “Non esisteva nessuna illuminazione, se non le fiammelle che tremolavano di fronte alle immagini sacre”.
Ma di giorno la strada è tutta piena di vita: gli artigiani vi espongono i loro manufatti. Ognuno pensa a tenere pulito il tratto di strada davanti casa sua. Quanto agli spazzini municipali, sono le galline e i porci che si aggirano per le strade spazzolando i rifiuti e tenendo pulito: sono loro la vera nettezza urbana medievale.
Arnaldo Casali
da Andrea Casalboni | Città
La nascita della città dell’Aquila per mano di Corrado IV e la sua distruzione a opera di Manfredi di Svevia suscitarono grande impressione nei contemporanei attenti alle vicende dell’Italia meridionale. Nel 1254 la città era sorta tramite sinecismo, ovvero accogliendo al suo interno gli abitanti di più di settanta villaggi e insediamenti dell’Abruzzo nord-occidentale, dando vita in breve tempo a un centro urbano capace di ritagliarsi una posizione dominante in quella regione frontaliera. Questa ascesa era avvenuta a scapito dei baroni della zona, ma anche di Rieti, che pur essendo città pontificia aveva fino ad allora esteso la sua influenza su buona parte dei territori in questione. Si era quindi giunti a uno scontro, nel 1257, che aveva visto L’Aquila prevalere, dando prova di capacità militari non indifferenti, spiegabili solo con un’ampia partecipazione da parte della nobiltà minore al progetto sinecistico.
Una città, dunque, alla cui crescita concorrevano tutti gli strati della società, dai vassalli liberati per l’occasione ai contadini liberi, dai mercanti ai cavalieri. La distruzione manfrediana, nel 1259, pose fine a quest’esperimento. Saba Malaspina, in particolare, descrisse la vicenda con parole immaginifiche. Nel racconto del cronista, L’Aquila, orgogliosa come l’uccello di cui portava il nome, abituata a elevarsi sopra i suoi vicini, adesso plumis nudata solo deprimitur: privata delle sue piume, sarebbe precipitata al suolo – letteralmente, dal momento che i suoi edifici furono dati alle fiamme e fatti crollare, mentre la popolazione veniva dispersa e costretta a tornare alle antiche dimore.
Si trattò, tuttavia, di una parentesi, per quanto non di breve durata: sette lunghi anni passarono, infatti, prima che la battaglia di Benevento, nel 1266, portasse un nuovo sovrano sul trono, il francese Carlo d’Angiò. Sotto di lui, L’Aquila tornò a risollevarsi. Il sovrano, ben consapevole delle debolezze del sistema difensivo del Regno che lui stesso aveva conquistato, organizzò una profonda ristrutturazione delle strutture preposte al controllo della frontiera, assegnando alla rinata L’Aquila un ruolo di controllo e supporto, una chiave di volta fondamentale per gli equilibri della regione. La nuova centralità acquisita e il favore del sovrano – ricambiato prontamente già nel 1268, supportandolo in occasione dell’invasione di Corradino di Svevia, ultimo erede di Federico II – permisero alla città di svilupparsi rapidamente, mentre il posizionamento strategico lungo la valle dell’Aterno, in un’area priva di centri urbani concorrenti, garantiva possibilità economiche fino ad allora mai sfruttate. Anche in campo religioso L’Aquila vide riconfermata la sua importanza (già attestata dall’ottenimento della sede diocesana e dal rapido attestarsi in città dei principali ordini religiosi) in occasione dell’elezione al soglio pontificio di Celestino V, incoronato presso la basilica di Collemaggio.
Furono anni di crescita economica febbrile, di grandi opere portate avanti con slancio dalla cittadinanza (il palazzo regio, la cattedrale, l’acquedotto, il circuito murario, l’ampliamento delle strade principali, selciate insieme alla piazza del mercato): tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento la città seppe infatti approfittare della crescita dei flussi commerciali lungo la cosiddetta “via degli Abruzzi”, che univa Firenze a Napoli aggirando Roma, per imporsi come importante snodo economico – anche grazie alla fiera della Perdonanza, concessa alla città dallo stesso Celestino nel 1294 – e fin dai primi anni del Trecento i ceti mercantili e artigiani avevano dato vita all’articolazione delle Arti, attestate per la prima volta nel 1327, in occasione della traslazione in città del corpo del pontefice.
Allo sviluppo economico si affiancarono, tuttavia, anche scontri e lotte intestine. Le comunità fondatrici, che durante la ricostruzione angioina si erano trasferite in città edificandovi le proprie chiese, piazze e fontane, avevano portato con sé anche i propri conflitti, legati spesso ai confini di pascoli, boschi e altri beni comuni nelle località di provenienza. Se questi scontri potevano portare all’espulsione dalla città anche di centinaia di persone, almeno temporaneamente, un problema altrettanto grave era rappresentato dalla competizione per la supremazia tra le fazioni nobiliari. Il primo a ottenere il dominio quasi completo sulla città fu Bonagiunta, dell’antica stirpe dei de Poppleto, sconfitto infine nel 1339 da un’alleanza tra le famiglie de Roio e Camponeschi. Eliminato Bonagiunta, le due famiglie si scontrarono tra loro e furono infine i Camponeschi a trionfare, con Lalle I, che divenne di fatto una sorta di criptosignore cittadino.
Fu proprio durante il governo di quest’ultimo che L’Aquila si trovò ad affrontare la seconda, grande crisi della sua vita. Nel 1347, infatti, mentre Luigi d’Ungheria scendeva in Italia con un esercito, intenzionato a conquistare il Regno di Napoli per vendicare il fratello Andrea, marito della regina Giovanna I e assassinato in circostanze poco chiare, Lalle Camponeschi spinse L’Aquila a ribellarsi e a sostenere il sovrano ungherese. Fu una guerra senza esclusione di colpi, con assedi e grandi battaglie, complicata dallo scoppio della Peste Nera e da un gravissimo sisma che nel 1349 fece crollare le stesse mura cittadine. Eppure, a dispetto anche della sconfitta di Luigi d’Ungheria, quello stesso anno, L’Aquila ne uscì vincitrice, i suoi crimini perdonati dalla regina Giovanna e il suo condottiero, Lalle Camponeschi, confermato di tutti i titoli che aveva ottenuto durante il conflitto.
I rapporti con la Corte si erano tuttavia inesorabilmente incrinati, e nel 1354 il criptosignore fu fatto uccidere per ordine di Luigi di Tarano, fratello del re. Agli aquilani toccò ancora una volta reinventarsi e il risultato fu il Governo delle Arti, in cui al camerlengo si affiancavano i rappresentanti dei letterati (notai, medici, dottori in legge), dei mercanti (prevalentemente i lanaioli), degli orafi, dei pellettieri e dei mercanti di bestiame – in cui appare evidente la preponderanza degli elementi legati alla pastorizia transumante e al commercio della lana, vero motore dell’economia aquilana. Nella seconda metà del Trecento furono proprio questi elementi a trainare la ripresa, dando avvio a una nuova fase di crescita economica (favorita anche dall’innesto di nuclei familiari stranieri, in primo luogo ebrei) che impose ancora una volta L’Aquila come crocevia imprescindibile, punto di transito da e verso l’Italia settentrionale – di fatto la seconda città del Regno dopo Napoli, la capitale, anche grazie al ritorno sulla scena politica locale dei Camponeschi, che avrebbero dominato ancora a lungo la città, permettendole di sopravvivere alla sua terza, enorme crisi: l’assedio di Braccio da Montone. Ma questa è un’altra storia.
Andrea Casalboni
da Mario Prignano | Città
Adagiata su un angolo dell’omonimo lago alla confluenza con il Reno, circondata da prati, boschi e molti terreni fertili per lo più occupati da orti e vigneti, Costanza fondava la sua economia sulla pesca ma anche su un fiorente commercio di prodotti agricoli e di vino. Vantava una considerevole e antichissima presenza religiosa che, oltre al clero secolare, comprendeva quattro monasteri all’interno o immediatamente fuori delle mura, due conventi di suore e un’abbazia celebrata già in epoca carolingia per la sua biblioteca e le miniature del suo scriptorium: Reichenau, situata su una piccola isola in mezzo al fiume, alle spalle del centro abitato.
I primi visitatori provenienti dall’Italia per il Concilio erano rimasti colpiti dal paesaggio ameno, dall’aria salubre e, in particolare, dalla pulizia delle strade cittadine. Ma, già qualche mese dopo, la Costanza che sarebbe apparsa agli ultimi arrivati aveva tutt’altro aspetto. Né poteva essere diversamente, per una città di poco più di cinquemila abitanti, ben presto sommersa da un’onda di almeno trenta, quarantamila tra ecclesiastici, nobili, ambasciatori, teologi e maestri delle varie università, uomini di lettere, banchieri e mercanti al seguito delle varie corti, provenienti da ogni parte dell’Europa; e insieme a loro frotte di segretari, scrivani, servi, familiari, per non parlare delle foltissime e rumorose scorte armate e di tutta una popolazione di artigiani e venditori ambulanti attratti dai facili guadagni assicurati da tanta potenziale clientela.
Tra questi ultimi, agli angoli delle piazze e nei vicoli di Costanza, insieme a un brulicare di ladruncoli, ciarlatani e perdigiorno, si incontravano fornai, panettieri, vinai e un buon numero di cuochi perfettamente attrezzati per cucinare sul momento i piatti più raffinati: cinghiali e caprioli ma anche tassi, castori e lontre, oltre naturalmente a tutti i pesci del lago fino alle rane e le lumache, apprezzate soprattutto dai clienti italiani. Per tutte le altre necessità c’erano a disposizione cambiavalute, fabbri, conciatori di pelli, sarti, calzolai, barbieri, chirurghi, gruppi di musicanti e danzatori di strada. Né potevano mancare le prostitute (ne sarebbero state contate fino a millecinquecento), per lo più residenti nelle numerose taverne cittadine o nelle stalle dei palazzi, quando non nei boschi intorno alla città, dove gli stranieri presenti al Concilio amavano svagarsi con lunghe passeggiate.
La domanda di alloggi, divenuta pressante già dopo l’estate, portò a una tale impennata dei prezzi da costringere Giovanni XXIII, prima da solo poi d’accordo con il re Sigismondo, a intervenire più volte sul consiglio cittadino perché evitasse speculazioni e truffe. Il rischio che a farne le spese fossero gli strati meno abbienti della popolazione non poteva essere scongiurato dalla regolare distribuzione ai poveri degli avanzi della mensa del papa o dalla cosiddetta «pagnotta», l’elemosina che appositi ufficiali pontifici facevano quotidianamente ai mendicanti in sosta davanti al suo palazzo. Secondo le tabelle che gli affittacamere erano tenuti a rispettare, per due fiorini renani al mese si aveva diritto a una camera, un letto con lenzuola e cuscino, una tavola con tovaglia, un tegame, un boccale per il vino e un vaso da notte.
Un apposito tariffario venne redatto anche per la custodia degli animali (solo i cavalli erano trentamila). Restava il fatto che la città non era in grado di ospitare tutta quella gente. Fatta eccezione per il papa, che risiedeva in vescovado; per i cardinali, che gli abati e i signori del luogo avevano fatto a gara per ospitare nei propri conventi e palazzi, e per il re Sigismondo e la regina Barbara, accolti al di là del fiume nell’abbazia imperiale di Petershausen, solo qualche nobile di rango poteva pensare di arrivare a Concilio inoltrato e trovare una sistemazione accettabile, cosa subito attestata dall’apposizione del proprio stemma sull’architrave della porta d’ingresso. Tutti gli altri erano invitati ad arrangiarsi.
Edifici in muratura furono eretti in tutta fretta nelle zone circostanti la chiesa di Santo Stefano, al centro della città, e nei pressi del monastero degli agostiniani, vicino al quartiere di Stadelhofen. Ma si trattava di soluzioni di assoluto ripiego, per un evento destinato a trasformare la città in una Babele dove si sarebbero sentiti parlare fino a 30 lingue e dialetti differenti, e dove i confessori erano costretti a esporre cartelli con l’idioma conosciuto visto che non tutti parlavano latino, a cominciare dai maggiorenti di Costanza e i principi imperiali (cosa che avrebbe provocato l’irritazione personale del re Sigismondo e non pochi disguidi in Concilio).
La fame di alloggi fu anche all’origine di strane storie, come quella del tizio che aveva creduto di risolvere i propri problemi cedendo la moglie ad alcuni ufficiali della Cancelleria del re dei Romani in cambio dei cinquecento ducati necessari all’acquisto di una nuova casa. A corto di idee, le autorità cittadine pensarono anche di obbligare ogni residente a ospitare almeno uno straniero in ragione delle dimensioni della propria abitazione, ma nemmeno questa misura riuscì a risolvere il problema.
Con l’intento di fare un po’ di ordine, oltre ai normali tribunali civile ed ecclesiastico, un’apposita corte con tre uditori pontifici e tre giudici scelti dal Comune venne istituita proprio per dirimere le controversie tra proprietari di case e inquilini. Le cause furono numerose e i magistrati, poi cresciuti fino a otto, lavorarono di buona lena, riuscendo a evitare che l’emergenza si trasformasse in disservizio e caos.
Dopo tre anni e mezzo di concilio, la città sarebbe uscita indenne sia sul piano dell’amministrazione generale della giustizia, con appena ventidue esecuzioni capitali per rapine e altri reati gravi, sia su quello dell’organizzazione dell’accoglienza e della gestione dei flussi sempre crescenti di stranieri e pellegrini.
Tanta pressione avrebbe provocato un improvviso e incontrollato aumento del traffico di natanti sul lago con molti incidenti mortali soprattutto nelle ore notturne, ma una sola vera sciagura scosse la città, quella che si verificò durante i festeggiamenti del carnevale 1415, quando un furioso incendio provocò il crollo di una palazzina e la morte di tutti coloro che vi risiedevano.
Mario Prignano
da Pierluigi Terenzi | Città
Nel 1354 gli aquilani furono sconvolti da un assassinio clamoroso: il conte di Montorio Lalle Camponeschi, loro leader politico, fu sgozzato dal principe Filippo di Taranto. L’Aquila si stava allora riprendendo dalla grave crisi dovuta alla peste nera del 1348 e al violento terremoto del 1349, che rischiò di spopolarla. Lalle affrontò l’emergenza facendo costruire steccati di legno grosso al posto delle mura crollate, costringendo la popolazione a rimanere nella città diroccata. L’intervento dimostrò che il conte deteneva il potere reale sulla città pur non avendo alcun titolo formale, e permise a L’Aquila di rifiorire e di riprendere il processo di crescita inaugurato qualche decennio prima.
Sin dai primi del Trecento, appariva evidente che questa città nuova, sorta intorno alla metà del secolo precedente, avrebbe costituito un importante polo politico ed economico del Mezzogiorno e anche del centro Italia. Collocata ai confini settentrionali del Regno e sulla «via degli Abruzzi», che collegava Firenze e Napoli, era presto diventata un centro commerciale di rilievo. Artefici di questo successo furono i mercanti-imprenditori locali, capaci di sfruttare le enormi disponibilità di pascoli per le greggi ovine per produrre e smerciare panni di lana di media qualità, accumulando patrimoni che reinvestivano poi in varie attività, non ultima quella bancaria. Il loro raggio di azione fu via via più ampio: già nella prima metà del Trecento, alcuni si legarono alle compagnie toscane che operavano nel Regno, principalmente quelle fiorentine. Ma lo sviluppo commerciale fu sostenuto anche dalla monarchia angioina, in particolare da re Roberto, attraverso una serie di privilegi che agevolavano l’attività, specialmente sul piano fiscale.
Emblematico di questa “triangolazione” fra L’Aquila, Angiò e Firenze è un episodio che riguarda uno dei maggiori mercanti del primo Trecento, Giacomo di Tommaso detto Gaglioffo. Nel 1327 Carlo duca di Calabria, erede al trono e allora signore di Firenze, chiese a Gaglioffo di acquistare in Abruzzo 6.000 montoni, 3.000 suini e 2.000 vacche per la sua corte nella città toscana, con buona pace dei macellai fiorentini. Gaglioffo doveva anticipare un’ingente somma per quel numero straordinario di capi di bestiame, operazione che poteva permettersi solo un grande mercante dotato di capitali consistenti.
A questo spiccato dinamismo economico non corrispondeva ancora un protagonismo politico dei mercanti. Fino a metà Trecento, altri erano i soggetti che si contendevano la guida della città, membri di un’aristocrazia cittadina con legami ancora forti con il territorio, da cui erano provenuti anche i primi abitatori dell’Aquila.
Le famiglie Pretatti e Camponeschi si resero protagoniste di una sanguinosa lotta per il controllo della città negli anni Trenta del XIV secolo. Nulla poterono i capitani, gli ufficiali posti dalla monarchia a capo dell’amministrazione cittadina, contro la loro forza militare e il loro radicamento sociale. Fu anche per questa ragione che la corte, dopo aver tentato più volte di pacificare le parti, si schierò con i Camponeschi quando i Pretatti si dimostrarono meno inclini a rispettarne le direttive. Espulsi per l’ennesima volta i rivali, Lalle Camponeschi ottenne il titolo di conte di Montorio e la legittimazione di fatto della propria preminenza politica. Ma la corte non abbandonò il proposito di pacificare la città e a questo scopo inviò in missione Filippo di Taranto: di fronte al fermo rifiuto di Lalle di riammettere gli esuli, il principe perpetrò l’atroce assassinio del 1354.
Lo sgomento che colse gli aquilani, vividamente descritto dal cronista Buccio di Ranallo, non impedì loro di elaborare un progetto politico straordinario per il regno di Napoli: affidare alle corporazioni il governo della città. Con l’avallo della monarchia, nacque il cosiddetto Reggimento ad Arti, guidato da un collegio di governo e da un consiglio in cui sedevano gli immatricolati a cinque gruppi di associazioni di mestieri: dottori di leggi e notai; mercanti; artigiani dei metalli; artigiani delle pelli; mercanti di bestiame. Il secondo gruppo, i mercatores, costituì il nucleo di una nuova élite politica, frutto del dinamismo economico e sociale dei decenni precedenti che si concretizzò in una forma istituzionale ispirata ad alcune città dell’Italia comunale, ma allo stesso tempo aderente alla realtà locale.
L’affermazione del mondo corporativo non provocò la marginalizzazione di quello aristocratico, che anzi si rese protagonista ancora per decenni delle lotte di fazione. Qualcosa era cambiato, però: il gruppo dirigente istituzionale diventò un nuovo attore in questo campo, talora promuovendo la pace a tutti i costi – anche escludendo tutte le parti dalla città – talaltra fornendo un sostegno più o meno velato alla fazione dominante, quasi sempre i Camponeschi.
La seconda metà del Trecento fu marcata dal rinnovato antagonismo con i Pretatti, che ebbe una battuta d’arresto nel 1381, quando il leader di questa fazione, Ceccantonio, fu catturato e condannato a morte. L’obiettivo fu colto anche grazie agli sforzi della regina Giovanna I, che osteggiava i Pretatti perché restii ad accettare la pace voluta dalla corte. Ma c’erano anche altre ragioni che rinverdivano i contrasti: il Grande Scisma della Chiesa e la contesa dinastica angioina condussero le parti a schierarsi su fronti contrapposti. Dopo la morte di Ceccantonio, i Camponeschi oscillarono fra l’una e l’altra fedeltà, subendo un breve esilio imposto dal vittorioso Ladislao.
La fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento scorsero sotto il segno dell’incertezza, per la mutevolezza delle posizioni dell’Aquila e dei gruppi politici al suo interno. Ma sotto il regno di Giovanna II il corpo politico cittadino si ricompattò. Guidata da Antonuccio Camponeschi, nel 1423-1424 L’Aquila resistette eroicamente all’assedio di Braccio da Montone, che morì senza poterla espugnare. Il progetto braccesco naufragò. E il nord del Regno fu salvo anche grazie agli aquilani.
Pierluigi Terenzi