Costanza e la scommessa del Concilio
Adagiata su un angolo dell’omonimo lago alla confluenza con il Reno, circondata da prati, boschi e molti terreni fertili per lo più occupati da orti e vigneti, Costanza fondava la sua economia sulla pesca ma anche su un fiorente commercio di prodotti agricoli e di vino. Vantava una considerevole e antichissima presenza religiosa che, oltre al clero secolare, comprendeva quattro monasteri all’interno o immediatamente fuori delle mura, due conventi di suore e un’abbazia celebrata già in epoca carolingia per la sua biblioteca e le miniature del suo scriptorium: Reichenau, situata su una piccola isola in mezzo al fiume, alle spalle del centro abitato.
I primi visitatori provenienti dall’Italia per il Concilio erano rimasti colpiti dal paesaggio ameno, dall’aria salubre e, in particolare, dalla pulizia delle strade cittadine. Ma, già qualche mese dopo, la Costanza che sarebbe apparsa agli ultimi arrivati aveva tutt’altro aspetto. Né poteva essere diversamente, per una città di poco più di cinquemila abitanti, ben presto sommersa da un’onda di almeno trenta, quarantamila tra ecclesiastici, nobili, ambasciatori, teologi e maestri delle varie università, uomini di lettere, banchieri e mercanti al seguito delle varie corti, provenienti da ogni parte dell’Europa; e insieme a loro frotte di segretari, scrivani, servi, familiari, per non parlare delle foltissime e rumorose scorte armate e di tutta una popolazione di artigiani e venditori ambulanti attratti dai facili guadagni assicurati da tanta potenziale clientela.
Tra questi ultimi, agli angoli delle piazze e nei vicoli di Costanza, insieme a un brulicare di ladruncoli, ciarlatani e perdigiorno, si incontravano fornai, panettieri, vinai e un buon numero di cuochi perfettamente attrezzati per cucinare sul momento i piatti più raffinati: cinghiali e caprioli ma anche tassi, castori e lontre, oltre naturalmente a tutti i pesci del lago fino alle rane e le lumache, apprezzate soprattutto dai clienti italiani. Per tutte le altre necessità c’erano a disposizione cambiavalute, fabbri, conciatori di pelli, sarti, calzolai, barbieri, chirurghi, gruppi di musicanti e danzatori di strada. Né potevano mancare le prostitute (ne sarebbero state contate fino a millecinquecento), per lo più residenti nelle numerose taverne cittadine o nelle stalle dei palazzi, quando non nei boschi intorno alla città, dove gli stranieri presenti al Concilio amavano svagarsi con lunghe passeggiate.
La domanda di alloggi, divenuta pressante già dopo l’estate, portò a una tale impennata dei prezzi da costringere Giovanni XXIII, prima da solo poi d’accordo con il re Sigismondo, a intervenire più volte sul consiglio cittadino perché evitasse speculazioni e truffe. Il rischio che a farne le spese fossero gli strati meno abbienti della popolazione non poteva essere scongiurato dalla regolare distribuzione ai poveri degli avanzi della mensa del papa o dalla cosiddetta «pagnotta», l’elemosina che appositi ufficiali pontifici facevano quotidianamente ai mendicanti in sosta davanti al suo palazzo. Secondo le tabelle che gli affittacamere erano tenuti a rispettare, per due fiorini renani al mese si aveva diritto a una camera, un letto con lenzuola e cuscino, una tavola con tovaglia, un tegame, un boccale per il vino e un vaso da notte.
Un apposito tariffario venne redatto anche per la custodia degli animali (solo i cavalli erano trentamila). Restava il fatto che la città non era in grado di ospitare tutta quella gente. Fatta eccezione per il papa, che risiedeva in vescovado; per i cardinali, che gli abati e i signori del luogo avevano fatto a gara per ospitare nei propri conventi e palazzi, e per il re Sigismondo e la regina Barbara, accolti al di là del fiume nell’abbazia imperiale di Petershausen, solo qualche nobile di rango poteva pensare di arrivare a Concilio inoltrato e trovare una sistemazione accettabile, cosa subito attestata dall’apposizione del proprio stemma sull’architrave della porta d’ingresso. Tutti gli altri erano invitati ad arrangiarsi.
Edifici in muratura furono eretti in tutta fretta nelle zone circostanti la chiesa di Santo Stefano, al centro della città, e nei pressi del monastero degli agostiniani, vicino al quartiere di Stadelhofen. Ma si trattava di soluzioni di assoluto ripiego, per un evento destinato a trasformare la città in una Babele dove si sarebbero sentiti parlare fino a 30 lingue e dialetti differenti, e dove i confessori erano costretti a esporre cartelli con l’idioma conosciuto visto che non tutti parlavano latino, a cominciare dai maggiorenti di Costanza e i principi imperiali (cosa che avrebbe provocato l’irritazione personale del re Sigismondo e non pochi disguidi in Concilio).
La fame di alloggi fu anche all’origine di strane storie, come quella del tizio che aveva creduto di risolvere i propri problemi cedendo la moglie ad alcuni ufficiali della Cancelleria del re dei Romani in cambio dei cinquecento ducati necessari all’acquisto di una nuova casa. A corto di idee, le autorità cittadine pensarono anche di obbligare ogni residente a ospitare almeno uno straniero in ragione delle dimensioni della propria abitazione, ma nemmeno questa misura riuscì a risolvere il problema.
Con l’intento di fare un po’ di ordine, oltre ai normali tribunali civile ed ecclesiastico, un’apposita corte con tre uditori pontifici e tre giudici scelti dal Comune venne istituita proprio per dirimere le controversie tra proprietari di case e inquilini. Le cause furono numerose e i magistrati, poi cresciuti fino a otto, lavorarono di buona lena, riuscendo a evitare che l’emergenza si trasformasse in disservizio e caos.
Dopo tre anni e mezzo di concilio, la città sarebbe uscita indenne sia sul piano dell’amministrazione generale della giustizia, con appena ventidue esecuzioni capitali per rapine e altri reati gravi, sia su quello dell’organizzazione dell’accoglienza e della gestione dei flussi sempre crescenti di stranieri e pellegrini.
Tanta pressione avrebbe provocato un improvviso e incontrollato aumento del traffico di natanti sul lago con molti incidenti mortali soprattutto nelle ore notturne, ma una sola vera sciagura scosse la città, quella che si verificò durante i festeggiamenti del carnevale 1415, quando un furioso incendio provocò il crollo di una palazzina e la morte di tutti coloro che vi risiedevano.
Mario Prignano